mercoledì 3 giugno 2015

Le migliori facce della storia del cinema

Ho sempre avuto la fissa per le facce. La gente fa in continuazione facce di tutti i tipi, in modo più o meno volontario. Spesso le facce sono indicatrici più di mille parole, non credete?
Sono un cultore delle facce e nei film di facce ce ne sono una marea. Ah, per faccia intendo una cosa tipo: “ehi, non ti piace il budino? Fai una faccia”. Oppure : “come l’ha presa? Ho visto che aveva una faccia”. Insomma la faccia. 
Qui ho elencato quelle che secondo me sono le migliori facce della storia del cinema. Ovviamente ce ne sono tantissime, una più importante dell’altra, ma queste per me sono le migliori.
Di proposito non ho messo foto o video delle facce in questione, perchè per apprezzarle vanno viste nel film intero.
Sono un semplice appassionato, non ho competenze tecniche oltre quelle che si possono sviluppare godendosi migliaia di film, perciò, tutto quello che dirò qui sotto, potrà essere deriso dagli espertoni. 


Al quinto posto...

Forse l’attore migliore di tutti i tempi è Jack Nicholson. Di sicuro è uno tra i migliori di sempre, di sicuro a qualcuno farà schifo, perchè è esagerato, sempre all’eccesso, con la faccia da schiaffi. Nessuno però potrà mai dire che non è un grande attore. Secondo me è il più grande di tutti. Ed è sua la prima faccia che prendo in considerazione in questo piccolo olimpo delle facce. 
Shining. Gran film, gran regista, grande storia, grande protagonista. Un cult. La faccia in questione è quella che il buon vecchio Jack ci appioppa nel punto esatto di svolta del film: Jack Torrance impazzisce. Jack sta da solo nel salone, gioca con la pallina, non scrive niente di niente a parte quella filastrocca. E a un certo punto impazzisce, cade vittima dell’albergo, e lo esprime con una faccia da antologia, stanca, sfatta, atona, ma con un guizzo ottuso e nascosto che fa venire la pelle d’oca. Con un’unica espressione Jack riassume tutto il film. Il film, alla fine, non è altro che quell’unica faccia, malata e perversa come l’Overlook. 




Al quarto posto...

Qui le facce in realtà sono tre. Appartenenti a due film diversi e a tre donne. 
Thelma e Louise e Million dollar baby. Le metto alla pari perchè non so decidermi. 
Geena Davis e Susan Sarandon sulla macchina, ferme nella sabbia prima di partire verso il precipizio. Due donne sfinite, ben oltre il punto di non ritorno, senza più nulla se non la loro amicizia. Quelle facce polverose, sudate, sorridenti, gli occhi luminosi. Stanno per fracassarsi nel Gran Canyon, gente, e ti piantano lì quel sorriso triste e felice, che tutte le volte che vedo il film mi fa disperare. Si guardano e dalle loro facce sprizza fuori tutta la stanca e gloriosa tragedia. 
Hilary Swank in palestra mentre il Grande Vecchio, ottantacinquenne tre giorni fa, accetta di allenarla dettando le sue regole. Un sorriso enorme che tenta d’essere trattenuto, ma non ci sta proprio in bocca. L’immagine della felicità. La felicità intera, di tutti i bambini la mattina di Natale messa dentro una sola faccia. È per questa faccia qui che Hilary ha vinto l’Oscar.
Tre grandi attrici, mai arrivate in cima, sempre un passo indietro le star assolute, belle soltanto da ubriachi, ma fenomenali.





Al terzo posto

Finalmente un film italiano. Fellini? Monicelli? No, Aldo, Giovanni e Giacomo. Allora sarà Tre uomini e una gamba. No, La leggenda di Al John e Jack. La scena del compleanno di Jack. La faccia che riesce a piazzare Giacomo constatando che Giovanni gli ha regalato un libro del Carabbaggio invece dei colpi della pistola è arte pura. Non so pensare a niente di fatto meglio, nella sua brevità, nella sua fissità perfetta. Ho sempre considerato Giacomo il più attore dei tre, il più disinvolto, ma qui supera ogni possibile bravura. Certo, non trasmette altro che il disappunto zotico di un analfabeta, ma te lo trasmette dritto in mezzo agli occhi come un cazzotto. 






Al secondo posto...

Rayan Gosling ha avuto un momento in cui sembrava dover sfondare qualsiasi cosa si potesse sfondare. Due o tre anni fa, più o meno. Poi s’è un po’ fermato. Di sicuro è un bravissimo attore e la massima espressione di questa bravura la dimostra in Drive, di Nicolas Winding Refn. Gran regista, tanto per precisare. 
La scena dove si può apprezzare la faccia è quella della rapina al banco dei pegni. La rapina va storta, Standard viene colpito mentre torna alla macchina. Quando viene esploso il secondo colpo e Standard crepa in mezzo al piazzale, Gosling fa una faccia che con una leggera smorfia riesce a descrivere l’intero personaggio e forse anche il film. Il pilota, Drive, il protagonista insomma, è un disadattato, un disperato, arrivato da chissà dove, cresciuto chissà in quale degrado sociale, senza famiglia, senza niente. Cerca di risalire, cerca di ritagliarsi un posto nel mondo, lavorando, sgobbando, e “arrotondando”, sfruttando quello che sa fare meglio. Questo pilota non è Jason Statham, non è il solito solitario senza passato che prende a botte tutti quelli che lo guardano storto. No, e tutto è contenuto in quell’espressione. Gosling ha paura, si spaventa, ha uno scatto terrorizzato. Nella fissità imposta dalle caratteristiche del personaggio riesce a mettere mille sfumature. La paura, la fragilità umana atipica per il genere, la presenza di spirito, la velocità di ragionamento, difetti e pregi di una persona “normale”, l’istinto d’autoconservazione sconosciuto a molti duri del cinema. Questo pilota le cose se le suda, non gli vengono da una supremazia misteriosa o da caratteristiche spinte all’eccesso. E tutto sta dentro quell’unica faccia tesa.



Al primo posto

Per qualche dollaro in più. Forse il più equilibrato tra i tre della “Trilogia del dollaro”. Trilogia che, giratela come volete, ha cambiato il cinema. Prima John Wayne se la rideva sparando minchiate con uno stivale appoggiato su una sedia e cavalcava sparando e ricaricando i due fucili facendoli roteare. Poi... Sergio Leone ha fatto vedere come poteva essere un film innovativo, moderno, e tutti l’hanno copiato. Esiste un prima Sergio Leone, e un dopo Sergio Leone. Qualcuno ogni tanto tira in ballo Sam Peckinpah, ma gente, Peckimpah è bravissimo, ma i suoi film migliori sono posteriori alla Trilogia e poi, scusatemi tanto, il suo stile non l’ha seguito nessuno. 
Il colonnello Douglas Mortimer corre dietro all’Indio per tutto il film e alla fine lo trova. Lo stana, letteralmente, sfoltendo insieme al “ragazzo” tutta la gentaglia che lo circonda. Soltanto che l’Indio è come Ramon, l’Indio è Ramon, per tutti i ragazzini che sono cresciuti idolatrando questi film, ossia è uno che meglio farselo amico. Il vecchio Mortimer si fa fregare come un pivello e l’Indio lo disarma. Eh sì. Tutta la fatica per trovarlo, i pericoli, la strategia, io dall’interno tu dall’esterno, tutto buttato nel cesso. L’indio apre il suo bell’orologio rubato e pronuncia la frase: “quando la musica finisce cerca di sparare, cerca”. E il colonnello Mortimer se ne resta lì, la pistola a qualche metro, nella polvere, il fucile dell’Indio puntato contro, il ghigno malsano e puzzolente di Volontè dritto davanti. 
L’Indio è lo scopo di vita del colonnello. Mortimer vive per far fuori l’Indio, ha fatto di tutto per trovarsi nella condizione di poterlo fare fuori, per vendicarsi. L’Indio ha ammazzato la sorella del colonnello, anzi, peggio, la sorella s’è sparata mentre l’Indio la violentava nel suo letto, dopo aver ucciso il fidanzato. E Mortimer vuole vendetta. Ce l’aveva quasi fatta, era ha un millimetro, e in un attimo la situazione è precipitata e si ritrova nella merda più nera. Non solo morirà, quello è il meno, ma non riuscirà vendicarsi, non eliminerà il suo nemico e quello anzi se la riderà ancora, soddisfatto, unto, sudato, vincitore per l’ennesima volta. Mortimer ha perso, ha fallito, è tutto finito. E noi, sullo schermo vediamo tutto questo dipinto sul volto di un Lee Van Cleef eccezionale, immenso nel mostrare tutta la disperazione che si possa immaginare. Un uomo distrutto, esterrefatto, al quale è stata tolta l’unica speranza, tuttavia dignitoso, duro come la roccia, inamovibile nella desolazione. La musica di Morricone tira coltellate nello stomaco, e la musica non è altro che la disperazione del colonnello.
Poi va be’, sappiamo tutti come va a finire.    





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